SERVIZIO DI PSICOLOGIA
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Solitudini in adolescenza
a cura di Eleonora Marzilli
La solitudine è un sentimento, e una condizione, ineliminabile per l’individuo, che lo accompagna per tutto il corso del suo sviluppo personale. Le esperienze solitarie, per quanto possano riferirsi ad eventi del tutto analoghi, rimandano a molteplici significati e dimensioni, sia oggettive che soggettive: è possibile infatti “essere solo”, “stare da solo” e “sentirsi solo”, riferendosi rispettivamente a condizioni di ritiro permanente e temporaneo, e di percezione di un sentimento, che a sua volta può essere connesso a stati affettivi distinti, di sofferenza, di vuoto, di noia, ma anche di benessere, di autoefficacia, di affermazione di sé, a seconda di quanto sia stata acquisita la “capacità di stare da solo” (Winnicott, 1985), di quanto tale solitudine sia “popolata a monte” (Dolto, 1996), ovvero sia preceduta dalla costruzione di buone relazioni sociali (Morpurgo E., Egidi Morpurgo, 1995).[1]
Si tratta quindi di un’esperienza rischiosa e al tempo stesso strutturante, che risulta fortemente in gioco in adolescenza, periodo in cui esperienze di solitudine, sia di tipo soggettivo che oggettivo, si manifestano in risposta alla diversa articolazione dei bisogni evolutivi di base, dei compiti di sviluppo fase-specifici e dello sviluppo cognitivo (Novelletto, Ricciardi, 1997; Pietropolli Charmet, 2000; Buday, 2010). Come sottolineato da Blos (1962), il processo di individuazione adolescenziale “è accompagnato da sentimenti di isolamento e solitudine” (pp.34), e per rielaborare i repentini cambiamenti che, su tutti i fronti, si verificano nella fase della pubertà e pervenire a una nuova immagine di sé, distinta e autonoma rispetto al passato, occorre affrontare momenti in cui è necessario stare con se stessi (Bracconier, 2007; Corsano, Musetti, 2012). In particolare, quello della solitudine è un tema che accompagna lo svolgersi di importanti processi di sviluppo adolescenziali, quali: la capacità, in via di strutturazione, di rappresentarsi come soggetto intero e dotato di confini integri, e non sulla base di una fusione con l’oggetto; la fiducia nella propria possibilità di affrontare autonomamente il mondo; l’elaborazione delle angosce di separazione-differenziazione, che sono alla base della costruzione della propria identità, con una precisa definizione di genere (Pietropolli Charmet, 2000; Buday, 2010).
Diviene dunque importante comprendere in che modo l’adolescente possa trasformare in una risorsa per lo sviluppo un’esperienza che in parte è insita nella condizione adolescenziale e che può essere vissuta in modo più o meno doloroso.
Sulle origini della solitudine
In ambito psicoanalitico sono state principalmente M. Klein (1959) e D. Winnicott (1958) ad interrogarsi e approfondire tale tematica. In particolare, M. Klein (1959) ha dedicato un intero saggio, “Sul senso di solitudine”, a tale sentimento, inteso come il “senso di essere solo indipendentemente dalle condizioni esterne” (ivi, pp.139). Secondo tale prospettiva, il sentimento della solitudine deriverebbe dalla nostalgia di aver sofferto una perdita irreparabile, quella di aver perduto irrimediabilmente uno stato interiore di perfetta intesa con la madre, di comunicazione e comprensione profonda, che non richiede l’uso di parole. Tra i fattori che contribuiscono a mitigare il sentimento di solitudine, M. Klein ritiene che la forza dell’Io provenga dalla sicurezza derivante dall’interiorizzazione dell’oggetto buono che, se stabilmente radicato nel mondo interno, diviene il centro dello sviluppo dell’Io. Analogamente, l’identificazione con l’oggetto buono rafforza il senso di fiducia di sé e dell’oggetto ed attenua la severità del Super-Io, che genera tolleranza verso di sé e verso l’oggetto amato. In presenza di una relazione armoniosa con l’oggetto primitivo, la solitudine “diviene uno stimolo a stabilire relazioni oggettuali” (ivi, pp.159). Al contrario, quanto più sarà severo il Super-Io, tanto più grande sarà la solitudine sperimentata dal soggetto, in quanto le sue dure esigenze faranno aumentare le angosce depressive e paranoidi (Klein, 1959).
Anche Winnicott (1958), nel suo lavoro “La capacità di essere solo”, introduce il concetto di solitudine come corollario del percorso evolutivo infantile. La sua, tuttavia, è una solitudine ben diversa da quella della Klein, non un sentimento soverchiante, ma una capacità da acquisire. In particolare, Winnicott (1985) riconduce la possibilità di una sua genesi, che ne consenta un uso stabile nella vita, al paradosso di aver potuto vivere tale esperienza, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre. Winnicott evidenzia come la condizione facilitante la capacità di essere solo sia fondata sulla possibilità che questa si manifesti all’interno di una situazione relazionale, che presuppone la presenza di un altro che riconosca e rispecchi il sé, con i suoi confini (Quinodoz, 1991; Monniello, Maltese 1997; Buday, 2010). Più precisamente, Winnicott fa riferimento a un tipo particolare di rapporto, definito relazionalità dell’io[2], per descrivere la relazione che si instaura tra il bambino che è solo e la madre, o un suo sostituto simbolico, che è attendibilmente presente. Il lattante e il bambino molto piccolo, con un Io ancora immaturo e disorganizzato, può tollerare la solitudine soltanto grazie all’ausilio dell’Io maturo della madre, che lo assiste, lo sostiene, gli da conforto, che resta presente anche in silenzio e in assenza di richieste. Gradualmente, la presenza di “qualcuno” (l’ambiente benevolo che serve di sostegno all’Io) viene introiettato e si acquisisce la capacità di essere veramente solo, perché in compagnia di un ambiente sufficientemente buono, tranquillizzante, una presenza interna che rappresenta la madre e le cure che questa ha dato al suo bambino e che si manifesta in un “dialogo interno” (Bollas, 1987) che può essere più o meno funzionale a sostenere il sé nell’affrontare le varie circostanze di vita (Buday, 2010). Se questa esperienza non è stata sufficiente, la capacità di essere solo non può svilupparsi. Inoltre, è dalla qualità di questo rapporto che si costituisce la precondizione per una fruttuosa esperienza dell’Es: in questa situazione infatti, il bambino avrà la possibilità di fare esperienza di sé e della propria vita interiore come un’esperienza personale autentica e legata ai propri vissuti interni, di sperimentare l’emergere dei propri bisogni ed aspetti affettivi profondi senza angoscia eccessiva, grazie all’intervento sensibile della madre che, identificandosi con lui, riconosce e rispecchia i suoi bisogni, rispettandone lo spazio, senza invaderlo con sollecitazioni legate ad esperienze proprie (Winnicott, 1958, 1967)[3]. Dunque, soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) il bambino può concedersi un rapporto spontaneo con il vero sé e scoprire la propria vita personale. L’alternativa patologica è “una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni” (Winnicott, 1958, pp.36). La difficoltà di vivere con una certa libertà tali esperienze, tanto nell’infanzia quanto nell’adolescenza, provoca l’inibizione della creatività nelle successive fasi esistenziali e lo sviluppo di un Sé conformistico e scarsamente personalizzato (Biondo, 1997).
Solitudine in adolescenza
L’esperienza della solitudine, nelle sue diverse forme, sembra contraddistinguere il periodo adolescenziale, sia nella dimensione delle relazioni con gli oggetti, sia all’interno del sé. Nel corso del processo di individuazione (Blos, 1962), percorso di rinuncia ma anche di creazione, è infatti possibile osservare il continuo articolarsi dei suoi differenti significati: da un lato, il sentirsi soli che esprime il dolore del distacco emotivo e del disinvestimento dagli oggetti interni del passato (Monniello, Maltese, 1997), il sentimento di perdita e di rinuncia di parti infantili di sé (Klein, 1959), il senso di smarrimento di fronte alle incognite del nuovo che lo sviluppo cognitivo, con le acquisite capacità di astrazione e riflessione, pone in primo piano; dall’altro, il piacere della propria intimità (Biondo, 1997), dello stare soli – in compagnia di se stessi – come fondamentale esperienza di autoriflessione e creatività.
Alcuni dati di ricerca (Melotti, Corsano et al., 2006; Goossens, Lasgaard et al., 2009) sembrano confermare la centralità e specificità di tale esperienza in adolescenza, evidenziando come durante questa fase evolutiva aumenti la frequenza del comportamento solitario e come la capacità di utilizzare il tempo per sé stessi in maniera costruttiva, sia un’abilità che si stabilizza in questa fase.[4]
Dunque, nonostante la solitudine compaia anche in fasi precedenti dello sviluppo, in adolescenza risulta centrale e specifica, in quanto comincia ad assumere la dimensione della pensabilità, della consapevolezza e dello stile personale. L’esperienza dello stare solo, già vissuta nell’infanzia, viene rimessa in gioco a livello di pensiero, ne viene testata e ampliata la tenuta, per giungere alla consapevolezza e alla rappresentazione di sé, della differenziazione dagli altri interlocutori di riferimento, delle proprie esperienze soggettive e dei propri sentimenti, compreso quello della solitudine (Monniello, Maltese, 1997). In particolare l’adolescente, nel suo percorso verso l’autonomia, verso la conquista del senso reale del Sé e della propria identità, si ritrova ad affrontare l’esperienza, antica e rinnovata, del differenziarsi e riconoscersi come individuo separato e, contemporaneamente, di riconoscere la necessità di avere bisogno dell’altro, sia per esigenze pulsionali che narcisistiche (Di Benedetto, Scarnecchia et al., 1997; Ricciardi, Sapio, 1997). Alla base di un maturo sentimento di solitudine vi sarebbe questo “pieno sentimento di dipendenza e contemporaneamente della responsabilità di sé stessi” (Novelletto, Ricciardi, 1997, pp.89).
Quando la solitudine può essere consapevolmente accettata e integrata nel proprio sistema di rappresentazioni, diventa fonte di slancio vitale, di creatività personale, base della fiducia nella comunicazione con se stessi e con gli altri e stimolo per le relazioni affettive. In tal senso, come afferma Quinodoz (1991), “sentirsi soli significa prendere coscienza che si è unici, che l’altro è ugualmente unico e il legame di relazione che si ha con se stessi e con gli altri diventa infinitamente prezioso” (ivi, p.18). Vi può essere dolore legato al fatto che l’oggetto non sia presente e a disposizione, pur essendo forte il desiderio di esso, ma c’è la capacità di distinguere tra sé e l’altro: “ciò che manca è qualcosa di esterno, ma io sono completo” (Monniello, Maltese, 1997; Buday, 2010).
Tuttavia, è importante sottolineare che la capacità di stare da solo rappresenta un punto di arrivo, più che di partenza, dello sviluppo adolescenziale. Parlare di solitudine in adolescenza, significa riferirsi ai suoi precursori e abbozzi di rappresentazione; l’adolescente infatti, non possiede le risorse interne per poter “scegliere” la sua solitudine, anzi, più spesso le vicissitudini e le trasformazioni della solitudine in adolescenza, si organizzano in una modalità di funzionamento definibile come <<agire la solitudine>> (Monniello, Maltese, 1997), una pre-forma di simbolizzazione, una pre-figurazione di qualcosa che deve ancora essere rappresentato e che rimanda ai processi in corso di sviluppo della capacità introspettiva e al “farsi solitario” come affermazione della propria differenziazione generazionale e di genere (Novelletto, Ricciardi, 1997). A tal proposito, particolarmente significativo risulta il modo di rapportarsi e l’uso che l’adolescente fa della sua “stanza”, contemporaneamente luogo concreto e metafora del sé o della mente, che può essere indicativo del progressivo costituirsi di uno spazio privato del sé (Ricciardi, Sapio, 1997).
Inoltre, una delle modalità specifiche attraverso cui l’adolescente verifica il novello funzionamento autonomo dell’Io e scopre le sue capacità di solitudine, di fiducia in sé, è l’assumere ed affrontare rischi (Monniello, Maltese, 1997; Biondo, 1997). Nell’esperienza della solitudine, come in quella del rischio, l’adolescente può infatti sperimentare un momento fecondo di distacco dal mondo e dagli oggetti, di ricerca delle proprie potenzialità, di verifica della propria capacità di porsi dei limiti e della propria capacità di controllo del mondo pulsionale, di elaborazione di una nuova immagine di sé e di confronto con il rischio della propria libertà personale (Biondo, 1997). In particolare, secondo Phillips (1993), è nell’assumersi rischi corporei e nell’affrontarli che l’adolescente inizia a costruire la possibilità di una solitudine benevola, di sentirsi fiduciosamente solo in presenza del suo corpo e dei suoi pensieri. Egli ha bisogno, inconsciamente, di “affidarsi coraggiosamente al proprio corpo, come il bambino alla propria madre” (Monniello, Maltese, 1997, pp.24), di mettere in pericolo il corpo, di sperimentarne e verificarne le rappresentazioni. Infatti, l’ambiente di contenimento è, per l’adolescente, il proprio corpo; appena questo inizia a rappresentare un nuovo tipo di ambiente interno, più solitario, egli straslerà all’interno di esso l’ambiente di contenimento dell’infanzia e attraverso l’assunzione di rischi esprimerà, in parte, i dubbi sulla madre e sull’ambiente di contenimento primario (Phillips, 1993; Monniello, Maltese, 1997). La sua capacità di una solitudine benevola dipenderà dalla “capacità di affidarsi al corpo come un ambiente sufficientemente contenente” (Phillips, 1993, pp. 34) e, dunque, dall’aver o meno sperimentato una buona esperienza di contenimento con l’oggetto primario, adesso trasferita sul proprio corpo (Novelletto, Ricciardi, 1997).
La possibilità che il giovane possa accedere a una solitudine matura deriva quindi dalla capacità di poter svolgere per se stesso quello che la “madre sufficientemente buona” ha svolto in passato, ovvero dall’aver avuto la possibilità di costruirsi la fiducia nell’esistenza di un ambiente benevolo e protettivo. In tal modo il rapporto con i propri oggetti interni offre di per sé un sufficiente sentimento di pienezza di vita, di essere colmi di buone esperienze, di fiducia nella bontà degli altri, che gli consente di poter temporaneamente riposare sereno e dialogare con pienezza nella sua solitudine, anche in assenza di oggetti e stimoli esterni (Novelletto, Ricciardi, 1997; Buday, 2010). Solamente in questo modo la solitudine può svolgere una funzione strutturante dell’individuo in crescita. Si tratta di ciò che in termini kleiniani viene definita la “presenza dell’oggetto buono nella realtà psichica dell’individuo”, un oggetto al quale la persona può inconsciamente appellarsi nei momenti di disagio e di turbamento emotivi e che può benevolmente contenerla arginando l’angoscia, costituitosi grazie alla ripetizione di gratificazioni istintuali soddisfacenti che garantiscono una relativa libertà dall’angoscia persecutoria e la possibilità di costruire oggetti interni buoni disponibili per essere proiettati (Winnicott, 1985).
La possibilità di affrontare questo percorso risulta strettamente legato anche alla possibilità di vivere nell’attualità dell’adolescenza esperienze gratificanti e rassicuranti di soddisfazione dei nuovi bisogni. In particolare, risulta fondamentale che gli adulti di riferimento riconoscano e sostengano i bisogni evolutivi legati alla nascita del nuovo sé adolescenziale, rispecchiando primariamente la sua soggettività in via di definizione, la sua alterità in quanto individuo distinto e separato da sé, ma con il quale si è in relazione, mantenendo un solido confine rispetto alle istanze, bisogni, desideri e paure proprie, senza dunque invaderlo con le proprie richieste, intrusioni e proiezioni. Tale possibilità risulta necessaria affinché l’adolescente possa accedere alla rappresentazione della propria separatezza e ad un vissuto sereno della solitudine, in quanto favorisce lo sviluppo della capacità di vedersi a propria volta come soggetto e di non dipendere necessariamente dalla presenza di qualcun altro dal quale essere definito, contenuto e rispecchiato (Buday, 2010). In questo percorso l’adolescente, dibattendosi tra la necessità di salvaguardare <<il Sé in solitudine>> (Winnicott, 1963) e la necessità ed il piacere, altrettanto fondamentali, di comunicare, deve quindi poter contare sulla presenza discreta e partecipe dei propri genitori, che gli consentono di stare solo “in presenza di qualcuno”, e cioè di allontanarsi, distaccarsi, sperimentarsi, senza che venga meno il loro sostegno emotivo e normativo. Può contare, inoltre, sulla presenza del gruppo dei pari, che fungono da sostegno affettivo e che attutiscono il sentimento di solitudine connesso alla separazione (Blos, 1962; Novelletto, Ricciardi, 1997; Pietropolli, Charmet, 2000; Corsano, Musetti, 2012). Dunque, l’esigenza di rendersi artefici del proprio cambiamento e di assumersi la capacità di essere solo, può realizzarsi solo in presenza di un buon rifornimento narcisistico dell’Io, tale da sostenere un investimento nel futuro (Ricciardi, Sapio, 1997). Al contrario, l’eccessiva sollecitudine e intrusività da parte dell’oggetto, osteggiando rigidamente i bisogni di autonomia dell’adolescente, esiterebbe nella preoccupazione eccessiva per l’oggetto stesso, rappresentando uno dei principali ostacoli per la realizzazione delle normali, e necessarie, esperienze di solitudine e di rischio (Biondo, 1997).
Nei casi in cui le esperienze primarie non abbiano permesso l’introiezione di un’adeguata funzione di holding, l’adolescente troverà difficoltà ad integrare la solitudine e la separatezza nel proprio sistema rappresentazionale, e conseguentemente ad accedere ad una solitudine positiva che, al contrario, potrà più facilmente essere vissuta come esclusione, rifiuto, abbandono. In questi casi l’adolescente si sente isolato e abbandonato in quanto sente di essere rimasto solo con ciò che rappresenta una parte cattiva del Sè (Klein, 1959). Vi è quindi il bisogno di un oggetto reale che sostenga, a fronte dell’incapacità di autotranquillizzarsi tramite un holding efficace di sé (Novelletto, Ricciardi, 1997; Bracconier, 2007; Buday, 2010). In altri termini, la persona non è in grado di percepirsi come buona e accettabile se questa bontà e accettazione non sono concretamente testimoniate dalla presenza di altri che la sanciscano; manca all’interno dei confini del sé una funzione tranquillizzante, una presenza “sufficientemente buona”, che deve quindi essere svolta da interlocutori esterni (Buday, 2010). Da una prospettiva più strettamente psicopatologica l’origine della mancata acquisizione della tolleranza alla solitudine può essere rintracciata nel fallimento dei processi di separazione-differenziazione primari, a causa dell’inadeguatezza dell’ambiente nel suo ruolo di schermo protettivo (Novelletto, Ricciardi, 1997). In presenza di fragili basi narcisistiche, e conseguente sfiducia nelle proprie capacità, l’uscita dall’onnipotenza simbiotica non può essere affrontata in quanto, l’accettazione del limite, farebbe immediatamente precipitare nell’estremo opposto dell’impotenza, del vuoto, dell’incapacità, della mancanza di valore personale (Buday, 2010). Allora, nella solitudine, in primo piano emergeranno l’angoscia abbandonica e la minaccia di frammentazione del sé, in cui l’eventuale separarsi e differenziarsi dall’altro non verrebbe vissuto come dolore psichico, ma come perdita di sé. Senza la capacità di stare da solo l’adolescente non riuscirà a colmare in modo creativo il vuoto derivante dal senso di solitudine; più facilmente sarà indotto a fuggirla tramite attaccamenti morbosi ai genitori e conseguente tendenza all’isolamento sociale, o la ricerca compulsiva di continui oggetti, altri o sostanze, con cui instaurare una posizione di dipendenza per proteggersi dalle angosce di separazione, nel tentativo di mantenere a tutti i costi una indifferenziazione sé-oggetto, al servizio di una visione onnipotente di sé (Novelletto, Ricciardi, 1997; Buday, 2010; Corsano, Musetti, 2012). In altri casi, potrà ricercare la solitudine nella forma patologica del ritiro, organizzazione difensiva che implica l’attesa di essere perseguitato e che esprime il bisogno di proteggersi da aggressori esterni (Winnicott, 1985). Si tratta di quella che Dolto (1996) definisce “solitudine a priori aggressiva, per senso di persecuzione” (pp. 68) e in cui, chiunque sia l’altro, si presume che ci rifiuti.
Note:
[1] La lingua inglese possiede termini differenti che permettono di distinguere i vari significati attribuibili alla parola “solitudine”. In particolare, il termine aloneness si riferisce alla condizione oggettiva di solitudine fisica, priva della connotazione emotiva ad essa associata; il termine loneliness, specifica l’esperienza vissuta soggettivamente dall’individuo, al di là del suo stato effettivo, e si parla allora di sentimento di solitudine che si associa a stati interni di isolamento, perdita ed abbandono; infine, il termine solitude fa riferimento ad una condizione di solitudine volontaria e ricercata, è un sottile ma profondo desiderio di solitudine inteso come spazio di introspezione, in cui l’individuo si può isolare per riflettere su di sé, come espressione della propria soggettività e creatività personale, nonché come sperimentazione della propria autosufficienza, dimostrandosi di potersela cavare da solo (Gotesky, 1965).
[2] In particolare, Winnicott descrive questa esperienza, in cui si esplicita la relazionalità dell’Io, nella formula <<Io sono solo>>: la madre sufficientemente buona, preoccupata per il proprio bambino, costituisce l’ambiente che lo protegge e gli consente di raggiungere la fase del <<Io sono>>, fornendogli la base per il senso di continuità dell’essere. La fase ulteriore dell’ <<Io sono solo>> presuppone anche la percezione, da parte del bambino, della continuità dell’esistenza di una madre attendibile, la cui attendibilità gli rende possibile di essere solo e di godere del suo essere solo, per un tempo limitato.
[3] Secondo Jeammet (1992) questo processo è garantito dalla presenza di una buona coppia genitoriale, in cui i conflitti dei e tra i genitori non straripino nello spazio psichico interno del bambino, rendendo possibile per lui la costruzione di confini sicuri.
[4] In particolare, sul versante soggettivo, si evidenzia un più elevato sentimento di solitudine nei confronti del gruppo dei pari nella fase di esordio dell’adolescenza; si teme l’isolamento e la non accettazione da parte di essi, che tende a diminuire progressivamente in seguito al massiccio investimento verso i coetanei. Parallelamente, inizialmente si rilevano bassi livelli del sentimento di solitudine verso i genitori, con cui il giovane è ancora legato da relazioni di tipo infantile, che tenderebbe ad aumentare progressivamente con l’età, in linea con la progressiva de-idealizzazione e disinvestimento dagli oggetti primari, che caratterizza il processo di separazione. Sul versante oggettivo, si rileva un aumento di affinità nei confronti delle esperienze solitarie col procedere dell’età; più l’adolescente prosegue nello sviluppo della propria identità come individuo autonomo e separato, più l’esperienza solitaria è sempre meno temuta e sempre più ricercata (Corsano, Musetti, 2012).