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Autolesionismo in adolescenza
a cura di Eleonora Marzilli

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Negli ultimi anni si è assistito a un numero sempre maggiore di segnalazioni, da parte di operatori sanitari ed educatori, di episodi di lesioni autoprovocate, principalmente a carico della fascia adolescenziale (Salvador et al., 2008; Nicolò, Romagnoli, 2010; Rossi Monti, D’Agostino, 2014) al punto che alcuni autori hanno definito tali condotte “il prossimo disturbo adolescenziale” (Welsh, 2004; Pezzoni et al., 2010). Numerosi studi riportano tassi di incidenza decisamente drammatici: per fare qualche esempio, negli Stati Uniti e in Canada circa il 14-15% degli adolescenti riferisce di aver compiuto almeno un atto autolesivo nell’ultimo anno; in Svezia l’incidenza arriva fino a circa il 40% degli adolescenti di 14 anni; tra i pazienti psichiatrici adolescenti i tassi salgono al 60-80% (Rossi Monti, D’Agostino, 2014). Nel panorama nazionale la situazione non sembra migliore: circa il 30-40% degli adolescenti senza alcuna diagnosi psichiatrica riferisce di aver agito una o più condotte autolesive nel corso della vita, per arrivare fino al 60% nella popolazione clinica (Cerutti, Manca, 2009).

Le modalità autolesive più frequentemente utilizzate sono il tagliarsi (cutting), il bruciarsi (burning) e le scarificazioni; le parti del corpo maggiormente colpite risultano essere le braccia, le gambe, il torace ed altre aree principalmente localizzate sulla parte frontale del corpo, in quanto sono le zone più facilmente accessibili e più facilmente occultabili, al fine di mantenere la segretezza di tali comportamenti (Favazza, 1998; Claes, Vandereycken, 2007). Tali agiti non sono necessariamente espressione di una patologia definita e conclamata ma, possono diventare patogeni e ripetitivi nella misura in cui vengono assunti dal soggetto come modello di condotta per far fronte a determinate situazioni emotive, bloccando il processo di sviluppo e costituendosi come base identitaria (si parla in tal caso di “cutters”, “burners”) e venendosi ad organizzare come una vera e propria addiction (Vanzulli, Pozzi, 2009). Spesso, infatti, costituiscono l’unico modo che l’adolescente trova per esprimere un dolore psichico intollerabile e inelaborabile e, contemporaneamente, rappresentano un disperato tentativo di mobilitare l’ambiente nella speranza che “qualcosa cambi” (Pelanda, 2010).

Le condotte di autoferimento intenzionale rappresentano un fenomeno prevalentemente al femminile (con un’ incidenza 1,5-3 volte maggiore rispetto ai maschi), con un picco di esordio nel corso della prima adolescenza (12-14 anni) ed attuato prevalentemente nella forma superficiale/moderata (Favazza, 1998) di chi, cioè, incide il proprio corpo in modo superficiale, moderato e accurato, ma ripetutamente. I giovani di solito riferiscono un aumento della tensione (arousal) prima del passaggio all’atto autolesivo e un immediato sollievo da un insieme di pensieri ed emozioni disturbanti, quali rabbia, angoscia, senso di vuoto e abbandono (Vanzulli, Pozzi, 2009; Pezzoni et al., 2010). In particolare, è possibile rintracciare motivazioni interpersonali – quali, ristabilire precisi confini tra sé e l’altro, comunicare un dolore intollerabile e non condivisibile, rendendolo visibile col rosso sangue che scorre dalla ferita – e/o motivazioni intrapsichiche, come la necessità di regolare le proprie emozioni, di acquietare o placare l’angoscia di un “vuoto interiore”, un modo per sentirsi esistere, o al contrario, porre fine a un opprimente sensazione di “troppo pieno” prodotta da una sofferenza debordante e opprimente (Salvador et al., 2008; Vanzulli, Pozzi, 2009). In ogni caso, i conflitti relativi alla separazione sembrano giocare un ruolo predominante nella comparsa di tale comportamento; l’evento precipitante e più comune è la percezione di un senso di perdita o abbandono, come ad esempio una lite, o la separazione, anche momentanea, da una persona significativa (Pao, 1969; Salvador et al., 2008).

Quello delle ferite autoinflitte è un fenomeno che riguarda in prevalenza i giovani proprio perché in adolescenza il corpo si trasforma in profondità nella sua forma e nelle sue stesse funzioni. L’adolescenza, dopo l’infanzia, rappresenta la fase di sviluppo in cui la psiche compie il maggior sforzo di integrazione tra mente e corpo. Con l’avvento della pubertà, l’adolescente si ritrova ad approcciarsi al corpo in modo ambivalente: dato ineluttabile, radice dell’identità, al tempo stesso spaventa per le sue trasformazioni e per le responsabilità verso gli altri che da esso derivano (Le Breton, 2003); presenza familiare ed estranea, “è contemporaneamente qualcosa che appartiene e qualche cosa che rappresenta l’altro e specialmente i genitori” (Jeammet, 1992, p.80). Amato e detestato, il corpo diventa in adolescenza una via privilegiata di comunicazione e di espressione simbolica (Jeammet, 1992).

In tal modo, la pubertà mette alla prova la solidità delle risorse interne dell’individuo, rilevando in particolare le difficoltà di interiorizzazione della prima infanzia e le problematiche di dipendenza rimaste fino a quel momento latenti (Jeammet, 1992). Oscillando continuamente tra gli estremi del conflitto dipendenza-autonomia, quanto più le basi narcisistiche dell’adolescente saranno fragili, tanto più questi avrà bisogno di oggetti esterni per rassicurarsi e completarsi, ritrovandosi in tal modo in una posizione psichica di profonda dipendenza dall’altro, di passività e di non controllo. Si genera così una situazione interna di tensione, di minaccia dei confini e dell’identità, arrivando a vivere il difficile paradosso per cui: “ciò di cui ho bisogno, proprio perché ne ho bisogno e in proporzione a questo stesso bisogno, è ciò che minaccia la mia autonomia” con effetti paralizzanti sul pensiero e sulle capacità di contenimento e rappresentazione (Jeammet, 1992; Ruggero, 2007).

Quando tutto sfugge e ci si sente impotenti, si ha sempre la possibilità di rivoltarsi contro sé stessi, di sostituirsi agli oggetti dai quali si dipende e ai quali ci si rivolge” (Jeammet, 2003, p. 34). Le condotte di autoferimento intenzionale dunque, sebbene concretamente si manifestino nell’attacco distruttivo al proprio corpo, internamente esprimerebbero un attacco alla relazione, o meglio “alle rappresentazioni delle relazioni con questo stesso corpo, con i genitori, con l’immagine di sé stessi” (Pelanda, 2010, p.130). Anche se in modo patologico, sembrano garantire all’adolescente la possibilità di controllare i conflitti del mondo interno e di contenere, almeno transitoriamente, un senso di precarietà intollerabile, arrivando “a rompere egli stesso, attraverso gli attacchi al corpo […] un’eccessiva vicinanza e le sue conseguenze intollerabili” (Pommereau, 2003, p. 23). L’altro è tenuto a una certa distanza e allo stesso tempo è presente, permettendo in tal modo di evitare sia l’angoscia di abbandono che d’intrusione. Nella prospettiva di chi mette in atto una condotta autolesiva, dunque, l’incisione della propria pelle rappresenta un tentativo disperato di difendere la propria identità e la propria unità minacciate dalla percezione di dipendenza e passività, un modo per ristabilire i limiti e i confini corporei compromessi dal bisogno dell’altro.

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